La doppia sfida: coltivare frutta e verdura nella “Terra dei fuochi” per sfuggire alla droga
C’è un posto ad Acerra, nel cuore della Terra dei Fuochi, dove l’agricoltura mortificata, umiliata e maltrattata prima dallo sversamento di rifiuti senza controllo,
poi da una campagna mediatica secondo la quale tutto ciò che spuntava nella piana campana era avvelenato, nocivo ed immangiabile, cerca di riscattarsi e di divenire essa stessa strumento di riscatto. Quel punto, a meno di un chilometro in linea d’aria dal termovalorizzatore, la costruzione del quale provocò forti tensioni nel 2005, si chiama La Locanda del Gigante.
E’ una masseria circondata da tre ettari di terreno che 26 anni fa il sociologo Carlo Petrella e sua moglie trasformarono in un punto di accoglienza per chi approdava lì da percorsi complicati, storie di tossicodipendenza. Entri e ti accoglie uno dei ragazzi, meno di una decina, attualmente ospiti. Offre caffè ed un sorriso, in attesa che arrivi «il dottore». Petrella compare pochi minuti più tardi. Scavato, asciutto, sguardo mite e la stessa determinazione di quando, 30 anni fa, fu trascinato in carcere ed in un processo insensato, conclusosi con un’assoluzione, solo perchè, promotore della Casa di Ban, struttura pubblica per l’assistenza ai tossicodipendenti a Torre Annunziata, un Comune del napoletano all’epoca sotto lo schiaffo del clan Gionta e della malapolitica, aveva attivato una unità mobile per somministrare il metadone a domicilio. Voleva evitare che gli eroinomani lo rivendessero appena fuori dal sert, dopo che lo avevano ricevuto dagli infermieri. Fu trattato come un narcotrafficante.
«Fate come i cani, annusate il territorio e poi ci ritroviamo sopra», dice al cronista e ad Antonio Esposito, ricercatore universitario impegnato in un progetto di monitoraggio e mappatura delle esperienze di agricoltura sociale in Campania. Il giro nella Locanda è un percorso tra un appezzamento coltivato a zafferano, ulivi, carciofi, un’area dove razzolano oche, maialini tailandesi ed un asino, una falegnameria, un laboratorio per la lavorazione del ferro, un piccolo cantiere dove si macinano pietre per ricavarne brecciolino. Sullo sfondo il Vesuvio. Silenzio interrotto dal fruscio di un vento che soffia costante e viene da lontano.
«Qui dentro – racconta poi Petrella nell’ambiente al piano superiore che per lui è ufficio e stanza da letto – cerchiamo di stabilire relazioni attraverso il lavoro in comune della terra. E’ un prendersi cura che può dare frutti».
E qui, appunto, ritorna in gioco l’agricoltura e la campagna acerrana, che resta meravigliosamente bella, nonostante gli insulti inferti in più punti dal cemento selvaggio, dagli sversamenti di veleni verificatisi nel corso degli anni, dalle scelte miopi di chi ha consentito, in un’area a vocazione agricola, l’insediamento di fabbriche come la Montefibre e, per ultimo, di un termovalorizzatore che certo produrrà sostanze inquinanti ben al di sotto dei limiti di legge, come rivendicano i gestori di Parthenope Ambiente (gruppo A2A), ma non aiuta chi, ostinatamernte, continua a coltivare pomodori, carciofi, cavoli e zucche.
«Tra questi pazzi che non si arrendono – racconta Petrella, che ad Acerra fu sacerdote per alcuni anni, prima di abbandonare l’abito talare nel 1969 – ci siamo pure noi della Locanda. I nostri prodotti sono ottimi, li abbiamo fatti analizzare. Puliti, squisiti, perfetti. Eppure, come tanti contadini qui intorno, troviamo difficile venderli al giusto prezzo. Paghiamo un marchio di infamia che non meritiamo. Ci hanno consigliato perfino di millantare che fossero stati coltivati altrove».
E’ una doppia sfida, dunque, quella che si combatte nella Locanda. Per fare innamorare di nuovo della vita che ha creduto di trovarla in una sostanza e per ribaltare il luogo comune secondo il quale, dai territori bollati tout court come Terra dei Fuochi, nulla di buono possa arrivare in tavola. «La seconda opportunità deglii uomini qui passa per la Madre Terra – conclude Petrella – e quella della Madre Terra ha bisogno degli uomini uniti. Solidali come quei nani che insieme costruirono una locanda. La chiamarono, perciò, la Locanda del Gigante».